VINCENZO GEMITO E LE CORRENTI ARTISTICHE CONTEMPORANEE

ARTE E GENIO TRA PASSIONE E PAZZIA

Servizio di Anita Curci

E’ incredibile come si possano avanzare critiche e obiezioni nei confronti di una scultura tanto magnifica come quella di Vincenzo Gemito. Eppure, a suo tempo, c’è chi lo ha fatto, se si esclude il buon amico, un po’ mecenate, un po’ agente e suo grande ammiratore Achille Minozzi, grazie al quale sono state conservate molte ed importanti opere dello sculture napoletano.
Minozzi, infatti, conservò disegni, schizzi e bronzi con devozione e passione, rendendo possibile l’allestimento di quella Sala Gemito, che contiene buona parte delle opere dell’artista napoletano e nel Museo di San Martino.
La critica d’arte, tuttavia, vuole le sue ragioni, anzi le pretende, e di fronte ad un’epoca che galoppa verso le “avanguardie” - dove addirittura il tratto impressionista, tanto distante dai modelli classicheggianti ormai demodé, viene egli stesso superato dai neoimpressionisti e dai surrealisti - non c’è da meravigliarsi.
E’ una corsa sfrenata verso il progressismo artistico e letterario – non da meno faranno i futuristi – che a tutti i costi vuole sfondare le barriere tradizionalistiche e idealistiche della linea e della forma, sacrificando anche chi, sia per ingegno che per abilità plastica, non merita di cadere e finire sotto zoccoli in fuga.

Non a caso tanto discusso sarà quel viaggio fatto nel 1877 a Parigi, dove Gemito molto approfondisce la conoscenza con il pittore ufficiale francese Jean-Louis-Ernest Meissonier, lasciandosi incantare dall’arte accademica, ritenuta ormai decaduta, retorica, e poco sedurre dalla produzione neoimpressionista, che doveva diventare notoriamente e, forse, giustamente, la rappresentante della modernità espressiva e figurativa. Questo suo indugiare presso una disciplina definita stantia, non più idonea a rappresentare gli impulsi e le esigenze di un’epoca in continua metamorfosi, sarà parecchio criticato dagli stessi contemporanei, i quali non riusciranno più ad identificarsi nelle successive opere dell’artista, che l’esperienza francese renderà più precise e delineate, rapite da una maggiore attenzione ai dettagli e da una scrupolosità non più indispensabile. Ma egli non ne avverte alcun sentore, eccitato all’idea di essere nella grande città aurea, ammirato e stimato dagli ultimi artisti indifferenti alle nuove avanguardie. Egli partecipa ai diversi Salons, con particolare successo, e all'Esposizione Universale del 1878. E’ in quest’epoca che realizza il ritratto dello scrittore e politico lombardo Cesare Correnti e tante altre opere, in cui si evince il radicale cambiamento nella mano dell’artista.
Vincenzo Gemito, affascinato dalla leggiadra aria francese, decide di trasferire il suo studio nell’Avenue du Bois de Boulogne, al numero 8, dove realizzerà un notevole numero di ritratti, tra cui quello all’amico oculista Landolt e quello a Meissonier. Resterà a Parigi fino al 1880, quando ormai inizia a chiarirsi nella mente l’input  sostanziale della polemica culturale del momento.
Ed è in questo marasma indistinto di ideologie e aspirazioni contraddittorie, in un tempo in fase di transizione, che avanza la figura dello scultore lombardo Medardo Rosso il quale – ingiustamente accostato alla scultura di Gemito per evidenziare l’arretratezza figurativa di quest’ultimo – rinunciando ai canoni di rappresentazione realistica (come ha visto fare dagli avanguardisti in Francia, da Rodin in particolare), modellerà le superfici in modo impreciso, sacrificando la perfezione plastica che è propria della scultura, così da far apparire “sfaldati” i contorni delle figure, come ad imitare quelle “macchie” tipiche del postimpressionismo.
Ma Vincenzo Gemito ama la sua scultura proprio perché è la “scultura” in tutto e per tutto, e deve lavorarla come sente opportuno. E lo fa.
Al di là dei ritratti, degli schizzi ad inchiostro, matita e biacca, sanguigna e carbonella, che sono spettacolari, spesso per la precisione tipica dell’attento cesellatore, talvolta per i tratti fugaci e rapidi come per donare immediatezza al disegno, tutta la sua produzione – ad esclusione delle ridondanti rappresentazioni classicheggianti dell’ultimo periodo – è segnata da momenti di grande spontaneità espressiva.
Vincenzo Gemito ha alle spalle un esordio toccante: abbandonato in una ruota d’un monastero della clausura di Napoli, l’Annunziata, viene adottato da un povero falegname, tal Francesco Jadiciccio, detto “mastu Ciccio”. E’ il 1852. All’orecchio destro il piccolo porta un cerchietto d’oro, unica eredità della sua vera famiglia. All’anagrafe viene registrato come Vincenzo Gemito, divenuto poi Gemito per un errore di trascrizione.
La madre adottiva, Giuseppina Baratto, che da poco ha perso un bambino suo, non ha il potere di sottrarlo ad un'infanzia povera ed irrequieta; nonostante tutto, il padre, uno dei soggetti più rappresentati dall’artista (nonché modello ispiratore del celebre Filosofo), è d’animo buono e lo incoraggia nella sua precoce vocazione. Difatti la passione per la scultura si manifesta in tenerissima età (intorno ai nove anni), quasi un’esplosione d’ingegno interrotto in una vita precedente. Vive i primi anni dell’adolescenza lavorando umilmente come garzone, fabbro, muratore e sarto, ma la sua inclinazione artistica convince i genitori ad orientarlo verso la pittura e la scultura.
Viene così introdotto presso la bottega di Emmanuele Caggiano, da cui però presto si allontanerà per “l’accademismo stantio” delle sue lezioni. Istintivamente Gemito nutre una certa riluttanza per la linea artistica adottata dal maestro, pertanto, lascia la bottega per collaborare con il coetaneo Antonio Mancini, più vicino alla spontaneità verista. La sua prima opera importante, la realizza nel 1864, Il giocatore di carte, acquistato dal re Vittorio Emanuele II per il Museo di Capodimonte dove attualmente è custodito; eseguirà il busto di Giuseppe Verdi (il modello in bronzo è oggi a Firenze, Galleria d’Arte Moderna), famoso ed impressionante, e poi il Malatiello, dove chiaro è il tentativo di imprigionare nella materia una sorta di intima sofferenza, propria del soggetto a cui si ispira e di cui è necessario trasmettere sensazioni e sentimenti.

Sono questi gli anni in cui si fa avanti l’esigenza di plasmare la creta, toccarla, interagire con essa attraverso un lavorio lento ed elucubrativo, e lo fa sperimentando una serie di piccoli busti e vivissime figure di mendicanti, popolani, in cui mostra l’indiscutibile capacità di esprimere, in maniera immediata, i mutamenti di un soggetto reale. L’avvicinamento all’idea dei modelli popolareschi, che saranno il fondamento basilare di quasi tutta la sua produzione attraverso scugnizzi, pescatori, zingare, denuncia la voglia di approfondimento di ciò che ruota intorno ad un mondo autentico, che non è immaginario e sterile.
Perciò la sua è un’arte semplice, decisamente istintiva, dove l’armonia delle forme è dettata da una tecnica abilissima ed una mirabile spontaneità creativa. I personaggi non hanno mai un’espressione stereotipata o un atteggiamento fisso, dacché egli è deciso a cogliere l’attimo di contrazione e riesce ad immortalare i soggetti nei momenti di massima vitalità. Capacità manifestata anche negli schizzi, che non denotano limiti. A tal proposito, Michele Buonuomo, semplifica in maniera esaustiva e concisa: “I suoi disegni continuano al di là della carta”.
Molto amico e vicino artisticamente al Mancini, come si è detto, ma anche al Dalbono e a Domenico Morelli (che introdurranno a Napoli i termini dei macchiaioli, senz’altro conosciuti durante i loro viaggi a Firenze), sentendosi ispirato, con fanciullesca ammirazione, ai loro modelli pittorici, come pure all’estetica figurativa e verista di Francesco Paolo Michetti. Tutti artisti conosciuti all’Istituto di Belle Arti a cui si iscrive nel 1864, dopo aver lasciato la bottega di Stanislao Lista, il quale gli aveva insegnato a modellare la creta e la cera. 
Dal 1876 egli trasferisce il suo laboratorio, dalla collina del Mojariello, nei pressi del Museo Archeologico; qui si dedica con più attenzione all’osservazione dal vero dei fenomeni esterni e dei personaggi, in relazione ad un contesto oggettivo. Nasce un’altra opera d’arte il Pescatore napoletano, conservato a Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Numerosissimi sono i ritratti in bronzo realizzati in questo periodo, poiché è in piena fase creativa ed avverte l’irrefrenabile necessità di produrre. Non da meno sono i ritratti che esegue per i suoi amici artisti, molto belli quelli fatti a Domenico Morelli e a Paolo Michetti intorno al 1873.
Egli continua a plasmare la materia, realizzare, toccare, creare con le dita, e questo riconduce alla vasta produzione di busti in terracotta e cera che lascerà ai posteri; ciò che resta oggi di lui, ci fa intendere che abbia molto prediletto il bronzo, poco il marmo, tanto amato invece dal Canova.   
Nei suoi schizzi, come nelle sculture, quello che colpisce, oltre al realismo delle rappresentazioni, è l’impegno incondizionato verso ciò che veramente vede e sente, obbedendo esclusivamente alla sua volontà interiore, come appare chiaro nell’immagine della Zingara col bambino ad esempio, figura assolutamente autentica e sapientemente disposta nello spazio; per non parlare del Pescatoriello (1872), realizzato per Diomede Marvasi e divenuto l’esempio emblematico della scultura dell’ottocento e del ‘900, dell’Acquaiolo (1881), plasmato con particolare amore per l’ex re di Napoli Francesco II malinconicamente esiliato a Parigi, e dei tanti ritratti e busti di Anna Cutolo Gemito (sposata nel 1882), dei bronzi rappresentanti la Nutrice, dove un vortice di emozioni e passioni trasudano dalla materia, degli studi anatomici, del Doppio ritratto di Matilde Duffaud (sua antica amante), del busto di Raffaele Viviani.
Il ritorno da Parigi rappresenta un momento cruciale sia per la vita, che per la produzione artistica di Vincenzo Gemito. E’ il 1880, decide di impiantare una fonderia personale, grazie al mecenate de Mesnil, onde lavorare con maggiore libertà. Si stabilisce, a questo proposito, in via Mergellina 200; sono gli anni in cui gli viene commissionata la statua del Carlo V, per la facciata di Palazzo Reale, la quale, istallata in seguito tra quelle commissionate per l’abbellimento delle nicchie esterne, non farà tardare polemiche. Giulio Carlo Argan, nella sua prefazione alla ristampa del libro di Di Giacomo sulla Vita di Gemito, dice: “Come sempre prudente nel dar giudizi, del Carlo V Di Giacomo s’accontentò di dire che non aggiungeva nulla alla fama dello scultore, e ancorché fosse una delle più ammirate, non era certo la più bella delle otto statue della facciata del palazzo reale”
Il lavoro al Carlo V logorerà Gemito in maniera imponderabile. I problemi si evidenziano subito, sia per le dimensioni dell’opera, sia perché egli non ama manipolare il marmo, materiale che, per la verità, egli detesta. Fino ad allora si era impegnato in manufatti di dimensioni regolari, adesso si chiede una scultura piuttosto grande e le difficoltà di trasporre in marmo il modello bronzeo, lo segnano in maniera indelebile.
Continuamente insoddisfatto e amareggiato, s’incamminano lenti i segni di indebolimento psicologico e i primi sintomi di una follia senza soluzione. Siamo nel 1886 e l'ansia di volersi adeguare ai modelli classici, l’ossessiva scontentezza verso la sua opera, non lo aiutano. Abbandonando il fervido verismo espressivo, esaltato nelle sue prime realizzazioni, Gemito cade in un avvilente disorientamento esistenziale, che lo induce a periodi di tragica pazzia e all’inevitabile trasferimento nella casa di cura Villa Fleurent. Seguirà un periodo di reclusione volontaria, presso una stanza del suo appartamento in via Tasso, rimanendovi dal 1887 al 1909. In questo lasso di tempo, nemmeno tanto breve, egli  produce un vasto numero di disegni e schizzi, di cui ne è rimasta memoria.
Morendo nel 1906 Anna Cutolo, sarà amorevolmente assistito dalla figlia Giuseppina e dall’ormai anziano padre adottivo che mai lo abbandonò, nonostante l’età. A non dimenticare l’artista napoletano furono anche i suoi affettuosi estimatori francesi, ma anche partenopei, come il Minozzi, riuscendo a tenere vivo il suo ricordo anche in quegli anni di improduttività scultorea.
Dopo ventuno anni di profonde sofferenze, Gemito esce dal torpore mentale autonomamente, ma ormai, anche se non ha perduto la sua abilità manuale, viene meno quello che era stato lo slancio iniziale di puro naturalismo. Infatti la necessità di voler avvicinare la sua arte ad esempi aurei, al ridondante perfezionismo estetico, gli farà perdere la creatività spontanea di origine, che aveva, invece, caratterizzato con successo la sua produzione iniziale.
Una commovente lettera, scritta ad Elisa Meissonier, ci informa della consapevolezza del suo mutamento interiore, del caos che imperversa nella sua mente, adducendo che ha smarrito la sua genialità di prima, e di non sentirsi più lo stesso uomo.
Inizia ad avvisare quei limiti che, probabilmente, egli stesso somatizza. E’ cambiato, infatti, i suoi non sono più soggetti popolari, semplici e genuini, immortalati con fugace estemporaneità. Si rifugia in soggetti complessi, mitologici, storici, cercando la perfezione nell’oggetto. Questo lo allontana oltremodo dalle correnti artistiche del tempo, confinandolo ad un’arte ormai stagionata, mentre si odono gli echi del chiasso futurista.
Questo si evidenzia nelle sue opere tarde, come il Narciso, la splendida copia elaborata tenendo ad esempio gli originali al Museo Nazionale. Una critica dell’epoca sottolinea un dato inequivocabile: “benché opera stupenda, essa nasce dall’arte e non dalla natura”.
Dal 1909, in seguito alla visita di Elena d’Orleans, moglie del principe Vittorio Emanuele, duca d’Aosta e futuro re d’Italia, l’artista napoletano riprende le sue attività di sempre, frequentando musei, viaggiando e partecipando ad esposizioni di rilievo, tra cui le Biennali di Venezia, l’Esposizione di Roma del 1911, ed esposizioni internazionali, come quella di Monaco nel 1913 e l’Universale di San Francisco nel 1915.
Questi sono gli anni in cui Gemito si riversa in una ideologia rifugio, quella dell’evocazione dell’antico e del divino, finendo vittima di un labirinto psicologico ed artistico che oscilla tra l’infantilismo, il profetico e il folle. Chiaro si evince questo suo nuovo delirio, in una lettera indirizzata ad Enrico Cavacchioli, e datata 30 marzo 1928.
”La scultura antica con quella moderna in che consiste la differenza nella diversità dei contemporanei di quando l’opera si effettua e da chi viene ispirato. Per esempio Michelangelo gli venne ordinato un Cristo che l’artefice fu divinamente ispirato che con tutta la felicità del suo genio: la condusse a termine perché nel mondo esistevano elementi molecolari nella mente di Mastro Michele che a quel contatto produsse l’immagine di Cristo che come Dio proprio lo avea in mente. Infatti sembra sprigionato dal cranio di Dio e divenuta marmorea parlante figura. Così io ispiratomi su l’Alessandro portai a fine dopo 14 anni 3 medaglie di questo imperatore che audacemente io giunsi a vedere volendo constatare l’entità della sua divina persona. Io quindi vidi Alessandro e lo trovai a somiglianza quella ch’io avevo plasmato. Se a l’artista manca la cognizione del passato non potrà mai fare capolavoro. Le mie opere sono prese dal vivo così come sono esistite”.
Le allucinazioni di questo periodo, infatti, lo portano ad uno studio spasmodico del personaggio macedone Alessandro Magno, ritratto e realizzato in più atteggiamenti.
Quella tramandata da Salvatore Di Giacomo nel suo libro “Vincenzo Gemito – La Vita e L’Opera”, del 1905, edito da Achille Minozzi, viene così definita da Giulio Carlo Argan: “Non è certamente la migliore delle sue prose né la più schietta delle testimonianze, la scrittura è ricercata e cerimoniosa come per dire e non dire. Riletta oggi, dopo sessant’anni dalla ristampa del 1928, la sua stessa reticenza fa documento per la revisione critica della scultura di Gemito e della letteratura di Di Giacomo, nonché del loro rapporto d’iniziale affinità e di successivo distacco, nella situazione difficile della cultura napoletana nei primi decenni seguiti all’unificazione d’Italia”.
Impossibile trasmettere, attraverso poche pagine, il genio, l’espressività artistica di tutta l’opera dello sculture napoletano. Per averne una vaga idea, diventa indispensabile soffermarsi su un’osservazione attenta dei disegni e delle sculture più significative di Gemito.
Negli ultimi anni della sua vita si dedicò a lavoro di oreficeria, lavorando oro e argento, in manufatti di particolare pregio.
Perennemente avvilito da precarietà economiche, da via Tasso Gemito fu costretto a trasferirsi nei pressi del Parco Grifeo, dove spirò il primo marzo del 1929.
Nel 1952, nella memoria del centenario della sua nascita, lo stato italiano ha emesso un francobollo con la sua immagine e il suo nome.


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