CORRADINO DI SVEVIA, IL PRINCIPE SVENTURATO

Servizio di Anita Curci



Tra le tante storie lette, sia per piacere che per necessità, quella di Corradino di Svevia (conosciuto come Corrado V di Hohenstaufen o Corrado II re di Sicilia) mi ha colpita nell’animo in maniera alquanto particolare. Non a caso, a suo tempo, commosse e sbigottì il popolo e la nobiltà oltre ogni misura.
Mi sono sentita pertanto in dovere di dedicare all’ultimo degli staufen qualche pagina che lo ricordi.
Non si può parlare di questo personaggio se prima non si inquadra il periodo storico in cui egli si mosse, e le beghe politico-sociali che fecero da sfondo.
Federico II di Svevia aveva disposto nelle sue volontà testamentarie che il regno di Sicilia fosse affidato al figlio Corrado IV di Hohenstaufen, mentre a Manfredi (figlio avuto da altra moglie, quale l’amata Bianca dei conti di Lancia) spettava il principato di Taranto ed altri feudi minori. E quando morì nel dicembre del 1250, si cercò di rispettarle.
Essendo impegnato in Germania il fratellastro designato al trono, Manfredi assunse intanto la luogotenenza del regno di Sicilia, in attesa di una sua venuta in Italia meridionale.
Manfredi trovò nel reame una situazione non particolarmente serena, in quanto le insistenze del papa circa la sua autorità sulle sorti di quella tanto contesa propaggine meridionale – avanzando una secolare pretesa legittimistica – divenivano sempre più assillanti e pericolose. Ad alimentare le difficoltà era la poca simpatia dimostrata dal popolo napoletano nei confronti degli svevi, condizione che spinse la città a barricarsi entro le mura, ad appoggiare i diritti del pontefice sulla scelta del nuovo regnante e a resistere agli assedi dei principi ereditari figli del defunto re.
In soccorso di Manfredi infatti era giunto, nel 1253, il fratello Corrado che s’impadronì finalmente del trono di Napoli benché destinato a non restarvi a lungo: il 24 maggio del 1254 lo colse la morte a soli ventisei anni.
Manfredi prese dunque il governo del regno, ma solo come vicario, poiché Corrado aveva lasciato in Germania il figlioletto di appena due anni, Corradino, il quale in tal modo avocava a sé il trono di Svevia, di Sicilia e di Gerusalemme. 
Soltanto nel 1258, quando giunse la fasulla notizia della morte del piccolo Corradino, Manfredi fu eletto re dai suoi sudditi.
Intanto l’opera belligerante contro la casa sveva, iniziata da papa Alessandro IV all’indomani della morte di Federico II, perseguita da Urbano IV, venne portata a compimento da Clemente IV nel 1265, quando invitò Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, ad occupare il trono di Sicilia. 
Il papa offriva il regno, considerato feudo della chiesa, ai francesi a patto che questi abolissero tutte le leggi che negavano i privilegi del clero e si facessero carico della regalia annuale ad essa spettante. Come tutti sappiamo, Carlo d’Angiò, ambizioso e spregiudicato, accettò, apprestandosi in Italia meridionale dove venne incoronato dal pontefice re di Sicilia il 6 gennaio del 1266.
Assicurati i privilegi alla chiesa e la pecunia cantante, il papa aveva sistemato ogni cosa. In verità aveva acceso (come si ripeterà ad ogni passaggio dinastico non ritenuto in linea con gli interessi ecclesiastici) una pericolosa mina, che avrebbe provocato non poche impietose morti.
Manfredi naturalmente non avrebbe potuto mollare il trono che era stato del padre, peraltro sottrattogli in modo avido e scorretto, così iniziò la pianificazione di una battaglia contro il feroce nemico angioino.
Purtroppo, in questa lotta contro i francesi, da molti fu tradirono, e i pochi che rimasero fedeli si batterono coraggiosamente al suo fianco.
A nord della città di Benevento avvenne lo scontro tra le due fazioni; dopo una cruenta lotta e la fuga di molti baroni che dovevano difendere la causa sveva, Manfredi cadde sul campo, ma non senza aver combattuto con prodezza e coraggio. Difatti, anche comprendendo che era ormai tutto perduto, egli si gettò con disperato valore contro ciò che restava dell’esercito angioino. Così periva, all’età di trentaquattro anni, un altro figlio di Federico II.
Si dice che, riconosciuto il suo corpo sul campo, dai suoi uomini fu seppellito sotto un mucchio di pietre. Fu l’arcivescovo di Cosenza che lo fece disseppellire, essendo stato Manfredi mille volte scomunicato dalla chiesa, pertanto ne fece gettare il corpo nel letto del vicino fiume.
La scomunica della chiesa rappresentava, specie a quei tempi, un elemento di particolare effetto, capace di deteriorare, con una semplice disposizione, vita e virtù di un uomo.
La scomunica era un’arma. L’arma del clero. 
Non potendo la Santa Sede scendere in campo personalmente, delegava altri. In alternativa usava la sua difesa più potente. 
La chiesa dichiarava e faceva guerra servendosi di persecuzioni di questo tipo. Difatti molti re e imperatori non cedevano alle pressioni degli ecclesiastici per straordinario trasporto di fede, bensì per il timore della minaccia che essi esercitavano attraverso il ricatto della scomunica. In un’epoca come quella in oggetto, oscurata da un’ignoranza diffusa, assommata alla paura di due entità come il diavolo e l’inferno - escogitate dall’istituzione chiesastica per tenere assoggettato a sé il popolo incolto e credulone - non rappresentava un evento positivo perdere il consenso del pontefice di turno. Il popolo non avrebbe mai acconsentito a porsi suddito di una sovranità scomunicata, da qui la minaccia, il ricatto, l’arma velenosa e virulenta di cui per millenni si è servito quell’organismo religioso nato per occuparsi di incombenze spirituali.
La vicenda di Corradino ha inizio in questo preciso momento storico, quando finalmente venne alla luce che il principe ereditario al trono di Sicilia non era affatto morto. Anzi, vivo e vegeto si aggirava nel castello di Hohenschrwangan in compagnia della cara madre Elisabetta Wittelsbach di Baviera e dei parenti, i duchi di Baviera Luigi e Ludovico.
Corradino era nato nel 1252 a Wolfstein, presso Landshut in Baviera. Oltre ad essere un bel giovane, alto, snello, dalla chioma d’oro e gli occhi color del mare, era anche di animo sensibile; si dice scrivesse poesie.
Aveva quattordici anni quando fu raggiunto da una delegazione di ghibellini che, provenienti dall’Italia, non avevano accettato il re angioino, pertanto ponevano tutte le loro speranze nell’ultimo degli Hohenstaufen, da contrapporre al sovrano incoronato da Clemente IV.
Il giovane principe, infervorato all’ipotesi di liberare il regno paterno e di farsi carico di un’impresa tanto ardimentosa - rammentando che nelle sue vene scorreva non già sangue reale, ma il coraggio e l’audacia, il vigore dei suoi avi Federico Barbarossa, Ernico VI, fino alla più vicina discendenza: suo padre Corrado e lo zio Manfredi – con orgoglio accettò l’invito a far valere la sua legittimità di re sul regno di Sicilia.
La delegazione, composta anche da esuli siciliani e napoletani, tra cui i fratelli Corrado e Marino Capece e il conte Galvano e suo figlio Federico Lancia, fratello e nipote dell’ex regina Bianca Lancia, offrì al giovane rampollo svevo la bellezza di centomila fiorini d’oro, oltre all’appoggio pratico ed effettivo di cavalieri volontari.
A questa si unirono ambascerie provenienti da Pavia, Siena, Pisa, Verona, Parma e Lucera, dove resistevano irriducibili i saraceni, che da fieri ghibellini si opponevano saldamente a Carlo d’Angiò.
Corradino, incoraggiato dall’euforia di tale incitamento, sostenuto dalla promessa d’aiuto di alcuni esponenti della famiglia e confidando nel ripensamento dei filofrancesi, in seguito alla politica repressiva e sanguinaria del d’Angiò, stabilì la partenza (con la dieta di Augusta) verso i territori d’oltralpe. 
Da Augusta (Baviera–Germania meridionale) nel settembre del 1267 si mosse con lui il giovane Federico, duca d’Austria, il duca Luigi di Baviera e Rodolfo conte d’Asburgo (gli ultimi due inizialmente contrari all’impresa), seguiti da un esercito di partigiani della casa sveva che Corradino, attraverso un bando, aveva esortato ad armarsi al suo fianco per la riconquista del regno di suo padre.
Valicò le Alpi, dunque, il principino biondo, raggiungendo tutte quelle regioni che lo attendevano con speranza.
Giunsero in dodicimila nell’ottobre di quell’anno, presso Trento, poi furono a Verona dove l’ultimo degli Hohenstaufen fu accolto gioiosamente, mentre da altre parti d’Italia continuavano ad arrivare consensi ed aiuti. Nel gennaio del 1268 Corradino passava per Pavia, poi si indirizzò verso Vado (vicino Savona), dove lo attendevano dieci galee offerte dai pisani e sulle quali si imbarcò con quattrocento dei suoi cavalieri. Il resto delle truppe proseguì via terra, condotte dal fedele e buon amico Federico d’Austria.
Giunse infine a Pisa, il giovane re, dove anche qui fu ricevuto con calore e festeggiamenti, come in tutte le altre città fino ad ora visitate, raggiunto dopo circa un mese dalle milizie rimaste col duca Federico.
A Pisa Corradino ricevé particolari soddisfazioni e dimostrazione di grande fedeltà. Oltre ad armi e monete, furono elargite anche navi cariche di soldati che andarono a contrastare le forze angioine presso le coste calabresi e siciliane.
Proseguendo poi per Lucca e Siena, l’esercito svevo fu ancora raggiunto e soccorso con soldi ed armi, benché una parte delle truppe, un tempo partigiane, avevano abbandonato la causa, comprendendo le difficoltà dell’impresa e l’impossibilità di un immediato profitto. Rimasero i mercenari che pure, se non pagati tempestivamente, tentennavano. Ma lo staufen non demorse, la vivacità, l’ospitalità e l’aiuto militare e pecuniario delle città ghibelline, lo spingevano ad andare fino in fondo.
Intanto un’alleanza procurata da Corrado Capece, giunse a proposito. Costui invocò Federico di Castiglia (imparentato indirettamente col principe svevo) ad intervenire in Sicilia. Ciò fu presto fatto, abbattendo il rappresentante del re, col favore della cittadinanza avvinta dal malcontento nei confronti degli angioini selvaggi e feroci.
Adesso il pontefice iniziava a covare timori; la potenza dello staufen cresceva di giorno in giorno. Finanche Roma attendeva ansiosa il suo arrivo (il papa si era trasferito a Verona?), pronta a collaborare in favore della causa antifrancese. Immediata e prevedibile giunse la scomunica della chiesa, ma Corradino non demorse, questa la sua risposta: “nessuna guerra al pontefice, soltanto la liberazione del regno dagli angioini”.
Ma questo non quietò il papa, che si preparava a nuove invettive contro le città che avevano sobillato ed armato il rampollo tedesco e che continuavano, in ricordo del magnanimo re Federico, ad aumentare e offrire aiuti monetari ed appoggi militari. Di parte sveva erano ormai molte zone del nord, del centro e del meridione, Terra di Lavoro, Capua, Aversa, Nola … tutto lasciava pensare ad una schiacciante vittoria del giovane Hohenstaufen. 
Intanto ancora giungevano ambascerie ghibelline dalle Marche, Toscana, Umbria e Lombardia.
Corradino nel frattempo volgeva verso il territorio abruzzese - dopo la puntata trionfale a Roma - onde aggirare l’ostacolo nemico e raggiungere la Puglia con Lucera, roccaforte saracena. 
A Roma aveva trovato un altro valido alleato, il senatore Enrico di Castiglia, fratello del re Alfonso di Castiglia. Di animo avventuroso, Enrico, aveva affrontato mille traversie, conclusesi con la fortunata nomina di senatore romano. Ma le sue ricchezze e i privilegi acquisiti, non riuscirono a mitigare l’astio verso l’angioino Carlo, pertanto risultò facile trovarsi improvvisamente ghibellino e, da quanto riportato dalle fonti, fedele a Corradino fino alla fine.
Raggiungeva le terre d’Abruzzo, lo staufen, quando Carlo d’Angiò era in assedio a Lucera. Saputo quest’ultimo delle intenzioni del nemico, tempestivamente si mosse per sbarrargli la strada del regno ed affrontarlo con un cospicuo esercito.
Fu rapidissimo re Carlo che, passati i quarant’anni, possedeva vigore da vendere. Sorprese il giovane, inesperto Corradino, nella zona di Scursola, nei pressi di Tagliacozzo, dove si delineò il destino dell’ultimo discendente di Federico II e del regno.
Era giovedì 23 agosto del 1268 - una data maledetta - quando le truppe sveve valicarono il corso del fiume Salto ed assaltarono le milizie francesi.
Nonostante i presupposti favorevoli, gli aiuti e gli appoggi politici, una serie di eventi contrari alla sorte – così come era accaduto per Manfredi – portarono all’eclatante sconfitta dei ghibellini.
Certo è che se Corradino avesse potuto forzare le truppe fino a Lucera, per la via di Sulmona, come si era prefissato, senza accamparsi per il riposo, probabilmente la storia avrebbe preso altro corso. Difatti i saraceni attendevano agguerriti il giovane principe svevo e nulla avrebbe potuto più fermare la sua ascesa al trono, tant’è che, oltre a molte città, anche il popolo una volta ostile, comprendeva che l’angioino non era il liberatore tanto anelato. Ma purtroppo le fonti ci tramandano una realtà diversa.
Le truppe di Corradino quel dì pretesero la sosta e questo si rivelò fatale, perché il 22 agosto Carlo ne approfittò per raggiungere il suo nemico nella valle del Salto, come già accennato, nella zona di Scursola.

Carlo aveva a disposizione un numero assai inferiore di combattenti, ma non per questo gli mancavano i mezzi tattici per poter vincere una battaglia contro l’inesperienza di un giovane appena sedicenne e, purtroppo, forse mal consigliato. Sta di fatto che le milizie di Corradino erano accresciute di gran lunga, e furono divise in due bande. La prima composta da spagnoli e ghibellini italiani e condotta da Enrico di Castiglia, mentre la seconda era comandata da Corradino e da Federico d’Austria a capo delle milizie tedesche. La furbizia di Carlo e di Alardo di Valery portò ad un’astuzia militare che decretò il successo degli angioini. Avevano essi diviso le loro truppe in tre bande di cui due erano visibili ed avevano a capo il maresciallo Enrico di Cousence, molto assomigliante al re angioino, e da costui travestito. La terza banda dell’esercito provenzale fu cautamente e previdentemente celata dietro due brevi poggi presenti nella vicina Conca del Fucino. A questo punto, mettendo in campo le milizie restanti, schierate secondo un’unica fila, la difesa angioina dovette apparire fragile ed estremamente debole agli occhi degli svevi, i quali non furono minimamente sfiorati dal dubbio o dal sospetto di un inganno militare. Infatti, quando durante la battaglia cadde Enrico di Cousence, i ghibellini si crederono vincitori, disgregando le truppe e tuffandosi nel saccheggio del campo nemico. Intanto Carlo attendeva impassibile il momento propizio per uscire alla luce con il suo esercito e sferrare l’attacco decisivo. E fu proprio ciò che avvenne, una vera e propria strage. I superstiti ghibellini fuggirono, così come fece Corradino, i suoi fedelissimi e tutti coloro che, però, finirono catturati ed uccisi nei giorni successivi. Nella sua fuga, il principino svevo, si trovò nella zona di Nettuno dove, imbarcatosi, provava a mettersi in salvo verso Pisa. Ma dalla Torre Astura fu riconosciuto dal castellano Giovanni Frangipane un tempo fedele a Federico II. Costui li ospitò nel suo castello, sordo ed insensibile alle invocazioni del giovane condottiero biondo che chiedeva libertà per sé e per i suoi compagni d’avventura, in cambio di notevoli ricompense. Ma il Frangipane credé di trarre un vantaggio maggiore nel consegnare i prigionieri nelle mani di re Carlo e del pontefice.  Ed è questo che ci tramandano le fonti ancora una volta. Così G.A. Summonte (1540-1602) nella sua "Storia della Città e del Regno di Napoli" scrisse: "Corradino ed i suoi compagni arrivarono alla spiaggia di Roma sconosciuti, in abiti di contadini, presso una terra chiamata Astura, la quale era di due fratelli della famiglia Frangipane, l'uno chiamato Pietro e l'altro Giovanni... Ivi fermatisi alquanto patteggiarono una barca, ove entrati sconosciuti, uno dei fratelli signori del luogo, veggendo belli giovani e di gentile aspetto, avendo già inteso che l'esercito di Corradino era stato rotto ed egli esser fuggito, giudicò esser Corradino un di quei giovani e con questa occasione poter divenire ricco col prenderli e darli in mano a Carlo (come poi fece)". Corradino fu tratto prigioniero insieme al caro e fedele amico Federico, duca d’Austria. Portati entrambi a Napoli vennero rinchiusi nelle celle di Castel dell’Ovo dove giaceva anche la cugina di Corradino, la figlia di Manfredi. Ormai non c’erano più dubbi sulla sorte del giovane principe; anch’egli se ne ravvide, benché pregasse per la povera mamma lasciata in Baviera: le aveva promesso di ritornare sano e salvo. Il 29 ottobre del 1268 fu eretto il patibolo nel Campo Morticino (Piazza del Carmine) e re Carlo s’appostò nei pressi per poter seguire le vicende dell’ultimo svevo fino alla fine. Certo è che se pure Carlo I avesse potuto nutrire qualche dubbio o scrupolo sul destino del principe biondo, il pontefice glielo sciolse definitivamente con una battuta breve e decisiva: “Vita Conradini, mors Caroli, mors Conradini vita Caroli”. E così fu. Il processo farsa istituito all’occasione per dare una parvenza di giustizia, giudicò e condannò a morte Corradino ed il suo seguito. Il principino salì sul patibolo senza paura. La leggenda vuole che mentre il protonotaro del regno, tal Roberto di Bari, leggeva la sentenza, Corradino lanciasse un guanto perché venisse raccolto per vendicare la morte degli ultimi svevi. La leggenda vuole che il guanto finisse nelle mani di un caro amico di Federico II, Giovanni da Procida che lo portò a Pietro d’Aragona. Per tal motivo ci sarebbe poi stata l’insurrezione di Palermo e di tutta la Sicilia, la quale – e questa è storia - si offrì alla Spagna, negando fedeltà all’angioino. Un epilogo che ha sempre oscillato tra romanticismo e realtà nei secoli fino ad oggi. Di sicuro Corradino quel 29 ottobre porse coraggiosamente il capo al carnefice che lo decapitò con un colpo di scure. Il suo cadavere, quello del giovane amico Federico e degli altri giustiziati, furono indistintamente trascinati verso il mare e ricoperti con sassi.  Vana fu la corsa verso l’Italia, la volata su Napoli della povera madre Elisabetta di Wittelsbach. Fu troppo tardi, e gli ori che aveva portato con sé per riscattare il figlio, li utilizzò per far innalzare un sepolcro con le spoglie del giovane. Si ipotizza che da quel sepolcro si sarebbe strutturata la futura chiesa del Carmine nella cui navata venne sistemato poi il tumulo con sopra la bella statua di Corradino, voluta successivamente da Massimiliano II (1662 – 1726) appartenente alla dinastia dei Wittelsbach. La storia del giovane principe tedesco ha per anni suscitato commozione, riuscendo a tenerne saldo il ricordo. Addirittura  durante la seconda guerra mondiale i monaci della chiesa del Carmine dovettero occultare il sepolcro dello Staufen, dacché Hitler ne aveva ordinato l’immediato ritorno in Germania. Progetto fortunatamente sventato. Ho sentito dire che annualmente viene celebrata nella chiesa una messa in ricordo di Corradino, grazie al cospicuo lascito che Elisabetta di Baviera aveva donato ai canonici per amore del figlio.



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