ANTICHI CAFFE’ DI NAPOLI

Servizio di Anita Curci



Anche se nelle cronache del tempo non esistono notizie sufficienti sui primi Caffè della città, pare che già dagli ultimi decenni del Settecento - lungo le principali arterie di Napoli - esistessero locali in cui veniva servita la classica “tazzulella ‘e cafè”. E’ in pieno Ottocento che queste attività crebbero di numero e si insinuarono nelle consuetudini della vita sociale, divenendo prerogativa di gusto negli usi e nei costumi della napoletanità.


Galanti in tal modo parla, sul finire del 1700, della nascente moda di sorbire caffè: “Il bere caffè è divenuto un uso generale. Fino i più vili lavoratori ne vogliono di mattino: essi lo tengono come digestivo. Felicemente per i loro nervi, quello che si dispensa nelle botteghe a buon mercato, non ha altro caffè che il colore. I nostri maggiori avevano un altro gusto, cioè di bere di vino generoso nelle osterie. Io lascio agli eruditi l’esaminare quale de’ due usi possa meritare preferenza”. Burbera riflessione da chi non amava né sedersi al tavolino a sorseggiare una bibita, né accettava la necessità di abbandonare l’idea circoscritta dei salotti e l’uscire all’aperto per discutere, incontrarsi. Tuttavia il Galanti seppe essere un ottimo osservatore: “Napoli ha un gran numero di botteghe di gelati e di caffè. Queste ultime in tutte le ore del giorno sono piene di persone che ciarlano o che guardano chi passa. Esse sono l’ordinaria dimora degli oziosi: vi si parla di tutto, si giudica di tutto, e si esaminano gli affari del governo e quelli delle potenze straniere”. 


Allora le abitudini cambiavano e si moltiplicavano i tavolini disposti all’aperto, mentre emergevano per fama e per fasto i locali frequentati dai nobili, dall’alta borghesia e quelli visitati da poeti, artisti, scrittori, che trasformarono i Caffè in luoghi di cultura, punti d’approccio letterario, peculiarità un tempo destinate, come accennato, ai salotti.




A metà Ottocento, lungo la bella strada di Toledo - voluta nel 1536 dal viceré spagnolo don Pedro de Toledo – si potevano contare oltre trenta sale adibite a Caffè. Non da meno erano le altre zone della città, quelle cruciali, dove il flusso di gente rappresentava un incentivo indispensabile. Infatti quella che per numero e importanza di locali pubblici poté paragonarsi all’affluenza del corso di Toledo, fu la zona del Porto, attiva e produttiva commercialmente. Dei Caffè del luogo ricordiamo quello del Molo (ovvero Caffè Delle Quattro Stagioni) frequentato dai giovani e sfrenati letterati, pittori, musicologi, epigrammisti e scrittori della Napoli liberale e anticonformista. Degli antichi locali pubblici annoveriamo il famoso Caffè Guardati in via S. Giacomo che era fornito di biliardi e tavolini da gioco. E mentre in piazza S. Ferdinando era aperto il Caffè di Parigi, nel 1820 veniva fondato il Caffè dei Cavalieri in via Toledo; poco più avanti il Caffè dell’Elefante e quello del Milanese (1816). Ancora lungo il corso principale il Caffè della Colomba d’Oro, Caffè Flora, Caffè Dei Veri Amici  e, dove era la Rinascente (già “Grandi Magazzini Fratelli Bocconi”), aveva aperto i battenti il Caffè Sotto a Buono dove la maggior parte degli studenti e giovani rivoluzionari si riunivano clandestinamente.


Nei primi anni dell’Ottocento famoso era un locale situato verso la strada per il Largo alla Carità, gestito da un gentiluomo di nome Vito Pinto. La vecchia insegna del locale che recava la scritta “Bottega del Caffè” – di memoria Settecentesca – fu dal Pinto riutilizzata per la sua nuova attività. Infatti il sagace don Vito non si limitava ad offrire alla sua clientela soltanto del caffè, ma serviva anche una specialità originale e sublime che produceva personalmente nei suoi laboratori: era il sorbetto, che recava in sé il delizioso sapore della crema pasticciera.


Ma questo non era che la radice di un processo evolutivo inarrestabile: la gelateria e la pasticceria napoletana erano destinate alla fama e al successo nazionale.


La Bottega del Caffè, allora nota per la bontà dei suoi gelati (tanto che i Borboni investirono il Pinto del titolo di barone), riuscì a mantenere un’attività fiorente per molti anni, fino a quando nel 1855 venne ceduta ad un tal Antonio De Angelis che nelle operazioni di ristrutturazione sostituì l’antica insegna con la nuova iscrizione: Caffè De Angelis.


Ma della Bottega del Caffè va menzionato uno tra i suoi più illustri frequentatori che fu Giacomo Leopardi, consumatore appassionato di sorbetti e gelati.


C’è da dire che il poeta recanatese, spesso accompagnato dall’amico Antonio Ranieri, amava intrattenersi anche presso il Caffè Trinacria, sorto intorno al primo decennio dell’Ottocento all’angolo di via Taverna Penta, di fronte via S. Giacomo. Qui si incontravano diverse personalità della Napoli d’élite, e anche giornalisti, artisti, scrittori tra cui Alessandro Dumas.


Il Caffè Trinacria visse fino al 1860 quando, ceduto ai fratelli Vacca, mutò in Caffè d’Italia (nome chiaramente legato alla nuova realtà politico-sociale della nazione) divenendo uno dei ritrovi più noti e accorsati del tempo.



Dagli anni Sessanta dell’Ottocento in poi Napoli s’affollò di punti d’incontro raffinati e moderni, rispondenti in maniera sempre maggiore alle nuove esigenze dei tempi. Si intensificarono le attività e le offerte dei ritrovi, dando vita a nuove tipologie di intrattenimento come quelle di cantanti e attori che, attraverso spettacoli folti e variegati, riuscivano a tenere vivo l’entusiasmo del pubblico che occupava sedie e tavolini all’interno e all’esterno dei nuovi Caffè concerto.


Tra questi va senza dubbio ricordato uno tra i primi esperimenti in tal senso, la Birreria Monaco, dove (e non era raro che accadesse anche in altri locali) sono state scritte le più belle canzoni napoletane mai esistite: “Marechiaro”, “O Sole Mio”, “Maria Marì” … etc, annotate il più delle volte direttamente sui ripiani di marmo dei tavolini. I pazienti camerieri invece di rimanerne infastiditi (poiché a loro spettava il compito di ripulire l’imbratto dei lapis) ne andavano orgogliosi e quando potevano riproducevano le opere su fogli di cartapesta imbevuta d’acqua, secondo il sistema di riproduzione litografica ideato dal cameriere del primo Caffè d’Italia (in piazza S. Ferdinando, attivo fino al 1844), Gennaro Durante.


Celebre e commovente anche l’episodio relativo alla canzone di Alfredo Fieno “Uocchie c’arragiunate!”, sublime melodia di parole, scritta all’interno dei locali del Caffè Croce di Savoia, e ivi musicata da Rodolfo Falvo.


Il Caffè d’Europa sorse intorno al 1845, poco distante da piazza S. Ferdinando; l’élite napoletana lo prediligeva per le sue eleganti sale, per le premure del cameriere zelante Raffaele Donzelli e per i modi raffinati e accomodanti della bella proprietaria Madame Thevenin, ricca di grazia e allegria. Probabilmente frequentato anche da Francesco Mastriani, dacché egli ne fa più volte menzione nel suo libro de’ “I Vermi”: “…Una sera dovea rivedere i miei amici al Caffe d’Europa”. Ma non è l’unica citazione: “Alle dieci in punto io trovai i miei tre amici al Caffè d’Europa, in quella torre di Babele piantata tra Toledo e Chiaia, dove convengono la sera tutti gli sfaccendati del bel mondo e tutti i forestieri che han voluto “veder Napoli e poi morire” [in corsivo nel testo]”. Una descrizione incisiva del romanziere verista napoletano che, comunque, non si ferma qui: “Tutto anima, tutto cuore, dà del tu al primo con cui si avviene a parlare, lo afferra pel braccio e, non ci è caso, lo trascina per forza a far secoli colezione,… beninteso in un certo caffè dove egli spende a parola; onde, talvolta fa fare a’ suoi amici un miglio di cammino per far loro complimento di una tazza di caffè; e i suoi amici, che non conoscono appunto le ragioni di certe cose, fanno le più grandi meraviglie nel vedere che egli preferisca di entrare in un caffè di poco lusinghevole apparenza, mentre sarà passato dinanzi ai più splendidi ed accorsati caffè di Toledo”.


Habitué di questo locale erano Francesco Proto, Attilio Pratella, Francesco Mancini, Vincenzo Migliaro, Saverio Altamura, Nitti, Cortese ed altri del famoso e illustre entourage.


Tra i tanti Caffè di Toledo – di cui qualcuno di essi senz’altro subirà il torto d’essere omesso da questa breve rassegna, ma non per questo considerato minore – da menzionare è il Caffè Corfinio di Francesco Roseca, assai frequentato da Ferdinando Russo, Scarfoglio e da D’Annunzio.


Ancora da segnalare è il  caffè-pasticceria Caflisch  che aprì i battenti nel 1825 in via Santa Brigida e in via Toledo, presso palazzo Berio, il 27 luglio del 1827.





Siccome ovvia appariva la realtà che le attività socio-culturali fossero concentrate fondamentalmente dentro i Caffè del corso di Toledo, ma maggiormente in piazza S. Ferdinando, riuscì geniale l’apertura di un nuovo locale presso il piano terra del palazzo della Foresteria per mano dell’imprenditore Vincenzo Apuzzo e denominato da questi Gran Caffè, anche se i napoletani lo chiamarono sempre Caffè dalle Sette Porte avendo ingressi sia in Largo Palazzo, che in piazza S. Ferdinando e in via Chiaja.


Questo Caffè si mise subito in sfrenata competizione col vicino Caffè d’Europa di Mariano Vacca, situato all’inizio di via Chiaja.


Entrambi i locali di altissima qualità si fecero una concorrenza spietata, ma quando sembrava avere la meglio il nuovo, magnifico Gran Caffè, Vincenzo Apuzzo chiuse i battenti avendo sperperato in manie di grandezze ogni risorsa finanziaria.


Nell’aprile del 1890 Mariano Vacca ottenne in fitto le sale del vecchio Gran Caffè, affidando il compito di ripristinare i locali invecchiati dal disuso e dal tempo ad Antonio Curri che vi adempì in un lasso di tempo piuttosto breve: cinque mesi dopo l’incarico –  nel novembre del 1890 – si inaugurava il Gran Caffè Gambrinus (dal nome di un re leggendario).


Da attento e bravo professionista, l’architetto pugliese si rivelò abile nello sfruttare al meglio creatività e praticità senza perdere di vista momenti di raffinatezza frammista a esigenze di modernità.


Curri si servì della mano di un gruppo di pittori che messi all’opera realizzarono degli affreschi di notevole rilevanza artistica, tanto da indurre Domenico Morelli a formulare un’altisonante considerazione sulle qualità visive delle opere, collocandole tra “… le più alte e significative espressioni dell’arte napoletana del XIX secolo.”.


Lavorarono proprio bene Gaetano Esposito, Giuseppe De Sanctis, Luigi Scarano, Andrea Petrone, Carlo Brancaccio, Edoardo Matania, Vincenzo Caprile, Vincenzo Volpe, Nicola Biondi, Vincenzo Irolli, Migliaro, Casciaro, Scoppetta e molti altri.


Da quel novembre del 1890 il Gambrinus divenne il fulcro della Napoli bene, degli intellettuali, degli artisti, dei personaggi forestieri più illustri, riuscendo a mandare in malora tutti quei Caffè che fino ad allora avevano orbitato con successo e fortuna intorno alla piazza e a via Toledo, raggiungendo l’ambita – e probabilmente meritata – vetta dell’importanza europea.


Nel 1890 fu inaugurata la prestigiosa Galleria Umberto I e subito in uno dei suoi locali interni fu aperto il Caffè Calzona (assai frequentato dai redattori del Mattino e da Matilde Serao), dove si organizzavano feste, si esibivano soubrette e si mettevano in scena spettacoli teatrali.


Si aprì in seguito il Caffè della Galleria con i suoi intrattenimenti in attesa dell’unico, indimenticabile Salone Margherita.



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